domenica 15 agosto 2010

Quel maledetto tabellone luminoso...

Innanzitutto chiedo scusa per la lunga assenza dalle pagine di questo blog; ci tengo particolarmente a questa mia finestra sul mondo dello sport, ma impegni vari e una connessione bizzarra mi ha tolto dal giro. Nel frattempo in questo periodo molte cose sono successe e molti eventi hanno fatto sorgere in me alcuni spunti di riflessione.

Parto dall’ultimo, il più fresco, perché risale a pochi minuti fa e quindi posso contare sull’Ispirazione. E riguarda il nuoto, la fatica, i sogni, la gioia, la delusione, la vittoria, la sconfitta. Tutti elementi che nel mio personalissimo modus vivendi sportivo vengono ben prima della mera e fredda cronaca.
Budapest, europei di Nuoto; la Russia vince la 4x100 mista; le ragazze sorridono, si complimentano fra loro mentre l’ultima frazionista sbuffa ancora in acqua per riprendersi dopo la fatica. Cento tiratissimi metri, chi a dorso, chi a farfalla, chi ha rana e poi l’ultima a stile libero, tutte splendide nel loro gesto atletico, filanti come torpedo.
Sono vezzose queste fanciulle del 2000; le unghie smaltate, alcune indossano cuffie personalizzate che le distinguono immediatamente.
Sono bellissime nella gioia. Ma qualcosa di strano c’è nell’aria: quel maledetto tabellone luminoso non accenna a mostrare i risultati ufficiali. È un brutto segno, soprattutto nelle staffette. Vuol dire che giudici di gara hanno notato qualcosa di strano. Le ragazze ingannano l’attesa. Continuano a ridere, a complimentarsi, a baciarsi sulla guancia. Di fianco a loro, inglesi e svedesi gioiscono per le altre piazze del podio. Altre escono mestamente dalla vasca ricoperte di delusione, chi di rabbia.
Poi eccolo il tabellone: Russia squalificata, oro alla Gran Bretagna. Le britanniche alzano l’asticella della gioia; da lì a pochi minuti potranno cantare a squarciagola God save the Queen. Mentre il sorriso delle russe si spegne e poi si tramuta in stupore, disperazione, il volto si contrae e lascia spazio all’espressione vacua di chi vede vanificata la propria fatica, del sogno che diventa un incubo.
La staffetta è una gara affascinante, ma dannatamente crudele: nessuno ti informa prima di un cambio irregolare o di una partenza anticipata della tua compagna; nessuno ti ferma e ti evita la spremitura dei muscoli. Nell’atletica una volta perso il testimone o mancato il cambio ci si ferma, nel nuoto si arriva in fondo e si prega il Dio degli sportivi, finché un tabellone elettronico, freddo e privo di sentimenti, fa calare implacabilmente la mannaia sui sogni. Apri gli occhi e non leggi più gold ma DQF: disqualified.
Così ha voluto il Dio dello sport. Amen.

The never ending match

Quello che stsa accadendo sul campo 18 di Wimbledon ha dell'incredibile. Non ci voglio credere, eppure il risultato è sotto ai miei occh: al quinto set i due gioatori, due carneadi vestiti in completo bianco in ossequio alla rigidatradizione del Tempio inglese del Tennis. In palio: il passaggio al terzo turno del più prstigioso torneo di Tennis del mondo. Gli inglesi sono religiosamente sportivi: c'è un Tempio per il Rugby (Twickenham), uno per il calcio (Wembley), uno per il Tennis, Wimbledon. Su uno degli altari si sfidano tale Jhon Isner, stangone americano di 206cm e fisico più da seconda linea di Rugby, e tale Nicolas Mahut, peperino francese che ancora dopo oltre nove ore di gioco trova la forza per regalare al pubblico un paio di tuffi a vita persa per cercare di salvare palline impossibili. Applausi, standing ovation: se fosse anche riucito nel suo intento, sarbbe venuto giù il palzzetto.

Si avanti per inerzia, a colpi di ace (98 per l'americano, 95 per il francese), coi giocatori che si trascinano per il campo come pugili suonati, a volte rimangono immobili, a osservare la cannonata dell'avversario cadere sul campo a velocità da Formula1 e poi schiantarsi sul muretto di fondo campo.
Solo questo terzo set è durato sette ore, la partita in totale si trascina da dieci.
C'è del grottesco in questo psicodramma su erba: al game di uno risponde l'altro, e ogni match point viene puntualmente annullato a colpi di ace, e così, in un loop interminabile che manda in brodo di giuggiole gli stupiti e di solito compassati sportivi inglesi, si arriva al calare delle tenebre: partita sospesa per oscurità, tutto rimandato al giorno dopo.
C'è della crudeltà nell'ostinato anacronismo dello sport romantico: niente tie-break al quinto set, avanti finchè uno dei due non prevale sull'altro con almeno due game di vantaggio sull'avversario; anche a costo di arrivare all'infinito, al logoramento; uno solo alla fine resterà e srà il vincitore.
E' questa la legge crudele dello sport: ci vuole un vincitore e un vinto.
Ma in patite come questa non c'è un vincitore e un vinto: bisognerebbefermarsi qui, sul 59-59 e innumerevoli record infranti, applaudire entrambi i contendenti e lasciare che a decidere sia la sorte.
Sarebbe il finale più bello di questa contesa emozionante, di questa epica trasposizione della Grande Guerra combattuta a colpi di racchette e palline, ace, passanti, servizi non ritornati. Il premio i questa logorante battaglia sarà per il vincitore l'avanzamento di turno, per lo sconfitto lo scoramento, per entrambi la Storia e la Leggenda del Tennis. (Milano, 24/06/2010)

Un evento a lungo atteso... Emozioni e sensazioni di un blucerchiato nella marea nerazzurra

Sabato 22 maggio 2010; finale di Champions Legue, Inter- Bayern Monaco. Io, tifoso della Samp, milanese, decido di andare a vedere la partita in Duomo. Anche se un po' in ritardo, ecco le sensazioni di quella magica notte. il pezzo è stato scritto la sera stessa, di getto, appena tornato a casa. Ora, dopo alcune revisioni, ho deciso di pubblicarlo.



Sono nato e vivo a Milano; sono nato e vivo in una famiglia di milanisti, circondato da zii juventini e da uno zio interista. Malgrado tutto questo tifo Sampdoria. Oggi, 22 maggio 2010, Milano è in fermento, perlomeno la parte neroazzurra: dopo 45 anni di digiuno potrebbe avverarsi il sogno di tornare a vincere la Champions League. Mi accordo con Marco, uno dei miei migliori amici, interista fino al midollo: tutti in Duomo, in mezzo alla bolgia ad assistere alla finale. Si parte da casa, presto: incontro previsto alla stazione Cadorna per le 17.30 circa. Salgo a Bovisa sul treno delle 17.44; trabocca di entusiasmo e di ragazzi bardati di nero-azzurro che cominciano a cantare. Cantano alla successiva sosta alla stazione di Milano Domodossola Fiera, cantano Milano siamo noi, sfottono i cugini del Milan anche quest’anno vittime di una stagione storta, mentre loro hanno già incamerato lo Scudetto, l’ennesimo, e una Coppa Italia. Se stasera sarà vittoria, sarà grande slam, storia, leggenda e mito del calcio italiano e internazionale. Continuo a chiedermi chi e cosa me lo faccia fare a cacciarmi in quel girone infernale, ma ormai sono in ballo e quindi decido di ballare fino in fondo. L’alternativa sarebbe stata quella di starmene a casa a vedere la partita in poltrona. Comodo, ma meno divertente. C’è un bel sole su Milano; aspetto Marco che arriva dopo qualche minuto, vestito con una polo che solo per cromia ricorda i colori sociali dell’Inter. Non importa, l’importante è indossare qualcosa di nero-azzurro. Io mi presento con maglietta a maniche corte completamente bianca e l’immancabile braccialetto della Sampdoria. Gli interisti passano a torme, tutti diretti verso piazza del Duomo: due maxi-schermi permetteranno a chi non è potuto essere a Madrid di assistere alla partita. Bandiere, magliette, alcuni sfidano la sorte e la scaramanzia indossando magliette celebrative con già stampata la terza Coppa dei Campioni; se va bene hanno una maglia storica, se va male si sono auto-inflitti la più grossa gufata che memoria umana ricordi.
In Duomo abbiamo appuntamento con altri amici: Francesco, venuto da Venezia col sogno di vedere l’Inter trionfare in Champions. Modellista, come me e come l’altro amico Mario. Alex e Fabio due amici di università che rivedo dopo tanto tempo. Sono le 18.30 quando ci compattiamo tutti: due ore e un quarto al grande evento. L’aria è impregnata di odore di salamelle, peperoni, crauti, cibarie di ogni sorta. Consumiamo il rito pagano del panino con salamella accompagnato dall’immancabile birra. Si fa un brindisi all’Inter e alla Sampdoria fresca di approdo ai preliminari di Champions. C’è tensione nell’aria, ma si respira un certo ottimismo. Arrivano le prime cifre: in piazza ci sono oltre 100.000 persone, la coda di gente si perde a vista d’occhio lungo tutta la Galleria Vittorio Emanuele. Una grande marea nerazzurra, interminabile, colorate, urlante, cantante, scaramantica, sognante, da leggenda.
Ci piazziamo di fronte alla libreria Bocca, all’inizio della galleria Vittorio Emanuele, faticosamente raggiunta dopo una marcia controcorrente. In mezzo a quella massa urlante ed entusiasta si boccheggia; fa caldo e la densità di popolazione che aveva trasformato la Galleria in una piccola Mumbay toglie il respiro. Boccheggio, e a ogni refolo d’aria mi alzo sulle punte per respirare, come un anfibio che dopo tanto tempo passato sott’acqua tira fuori la testa per prendere una boccata d’aria vitale. Davanti a me si piazza un marcantonio, sudatissimo, accento romano, stringe a sé la fidanzata. Mi chiede con insistenze se malgrado la sua ingombrante presenza io riesca a vedere lo schermo. Ci vedo, ma in quel momento è il minore dei problemi: la densità è aumentata e ho bisogno di spazio per respirare. Mi spiega che è lì perché ha perso al compagnia di amici con cui era venuto. Grazie al cazzo, non mi interessa. Non respiro! Accanto a me due ragazzi a torso nudo saltano, cantano, ruttano. Poco davanti a me una graziosa biondina tiene gli occhi incollati al mega schermo, si accende nervosamente una sigaretta che abbandona dopo due tiri, lasciandola cadere nei pochi centimetri liberi fra una gamba e l’altra. Troppa tensione, anche per fumare l’ultima Pall Mall rimastale e poi fine del pacchetto.
Ore 20.30: sul maxi-schermo appaiono le prime immagini da Madrid. Boato. Si leva forte al cielo il grido Inter! Inter!, così forte che nella testa dei tifosi vi è l’idea che possa rimbombare fin dentro le leggendarie gradinate del Santiago Bernabeu. Altro boato alla mega coreografia preparata dai tifosi in trasferta a Madrid, fischi e sberleffi a quella del Bayern, scenografica ma con il poco trascurabile difetto di essere scritta in tedesco. Non si capisce un cazzo di quello che c’è scritto. Quindi fischi e sberleffi.
Alle 20.45 precise il calcio di inizio, ogni tanto qualche petardo scoppia fragoroso nella piazza, si alzano i primi fumogeni, partono insulti all’indirizzo di un tifoso che levando al cielo la bandiera impedisce la visuale a chi si trova dietro di lui; si invita gentilmente il tifoso a ficcarsi la bandiera nel culo, quindi questi, tolto il drappo alza al cielo il solo bastone: medesimo invito, riferito al solo bastone. Il bastone rimane alto nel cielo, malgrado tutto.
A un certo punto passa un’ambulanza: qualcuno nelle retrovie comincia ad accusare il mix di tensione, caldo, qualche alcolico di troppo.
Quindi, improvvisamente ecco un’azione meravigliosa dell’Inter, Milito entra in area, tiro secco e palla nel sacco. In un attimo si leva un urlo, le persone cominciano ad agitarsi come schegge impazzite, maschere trasfigurate nella gioia suprema di una palla che si infila nel sacco e che va ad essere il primo mattone di un sogno. La temperatura si alza, quell’arena improvvisata diventa una fornace in cui migliaia di corpi si agitano, urlano. Vengo spintonato a destra e a manca, cerco di mantenere l’equilibrio, di non cadere perché cadere avrebbe voluto correre il serio rischio di venir schiacciati dall’onda gioiosa. Abbracci, baci. Qualcuno accende un fumogeno, l’aria si impregna del suo odore, fa ancora più caldo, si fatica a respirare.
Al termine del primo tempo faccio una mossa che si rivelerà errata: esco dalla mia postazione, mi dirigo verso il McDonald: ho la gola secca, ho sete, non ce la faccio più, inoltre ho davvero bisogno di aria. Faccio un quarto d’ora di coda e mi trovo costretto a bere acqua frizzante: la saggezza popolare d’altronde afferma o mangi sta minestra o salti sta finestra. L’acqua naturale era finita, se volevo bere c’era la frizzante. Esco e vedo di recuperare i miei amici: non li vedo più inghiottiti dalla massa, il mio posto non ce la farò mai a riconquistarlo. Vago avanti e indietro per la galleria, poi la decisione: me ne torno a casa.
Risalgo tutta la Galleria Vittorio Emanuele. È un’unica fila, tutta colorata di nero-azzurro; mi chiedo cosa vedano gli ultimi. Non importa, quel che conta è esserci e io per un po’ ci sono stato. Io posso dire: IO C’ERO!
Passata Piazza della Scala mi immergo in un silenzio surreale. Attraverso via Filodrammatici, piazza Enrico Cuccia: pare di camminare nella Milano agostana, chiusa per ferie. Quella sera era chiuso per manifestazione sportiva, più tardi sarebbe stata un fiume in piena di goduria e sarebbe rimasta in piedi fino all’alba, colorata del nero e dell’azzurro. Quella Milano bastonata, irrisa, messa a tacere per anni e anni dalla Milano rossonera, stava per risvegliarsi dal lungo, coatto letargo.
Ne ho la conferma: in lontananza, ma fortissimo un secondo boato. È goal! 2-0, la Coppa sta prendendo la strada di Milano, come io stavo prendendo la strada per la Bovisa.
Passa da quelle parti un tifoso, evidentemente non interista; ironizza: «Anche quest’anno la Champions la vince una squadra straniera!»
Arrivo in Cadorna, c’è silenzio; eppure la partita dovrebbe essere quasi finita. Milano è ancora davanti alla televisione. Sul treno delle 22.43 non c’è anima viva, ci sono solo io. Attraverso la notte Milanese nel silenzio ovattato del TAF delle Nord. Penso che fra dieci minuti, quando sarò arrivato in Bovisa, verrò accolto dal frastuono assordante e incessante dei clacson, della festa. Invece nulla. Nulla se non una ragazza che urla dal finestrino della macchina «W l’inter!».
Osservo la scena stranito: avevano vinto, lo diceva anche il sito della Gazzetta! Eppure in giro non c’era nessuno; il kebabbaro della Bovisa, che probabilmente possedeva l’unica televisione non sintonizzata sulla partita continuava la sua attività fra l’indifferenza dei tre o quattro avventori arabi che chiacchieravano chiassosamente in un idioma sconosciuto. A questi della partita non importava nulla.
Salgo in casa e mentre guardo alla tv le immagini di festa, ripenso a quella folle giornata; penso che è stata un ‘esperienza pazzesca e che sia stato un peccato non avervi preso parte fino in fondo. E penso che certe esperienze vadano vissute, anche se la bandiera che ti rappresenta non è quella neroazzurra ma quella blucerchiata. (Milano 17/06/2010)